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DEL DESIGN CINETICO E POETICO
IdeaMagazine.net, novembre 2005 | Intervista a cura di Umberto Rovelli

Per conoscerci meglio partiamo con un breve excursus dei tuoi trent'anni di attività.
Mi sono laureato nella Facoltà di Architettura di Firenze, e sono rimasto in Facoltà per più di 10 anni come assistente di Leonardo Savioli, titolare della Cattedra di Arredamento. Un'esperienza interessante sia per il contatto con quello che è stato il mio Maestro, sia per il rapporto stimolante con gli studenti e gli altri assistenti. Per Firenze si è trattato di un momento molto creativo e proficuo. Un’idea di quegli anni ‘70 si può avvertire nelle pubblicazioni inerenti i progetti di quel periodo. Qualche tempo fa, sfogliando La città sognata – volume a cura di Marco Conti e Alfredo Scanzani, che raccoglie progetti non realizzati a Firenze da Giotto ai giorni nostri – ho ritrovato alcuni elaborati di miei studenti. Trovo che molti siano ancora interessanti, insaporiti com’erano dal sale dell’utopia; quello sguardo «oltre» che ha caratterizzato un decennio in cui dalla Facoltà uscivano progetti di grande qualità e intensità. Utopia e sogno hanno caratterizzato il mio imprinting, l’atteggiamento nei confronti del progetto. Ancora oggi, forse, non sono riuscito a svilupparne appieno nel lavoro tutte le potenzialità.
Mi sono comunque da subito occupato anche di design, perché mi riconosco un animo da bricoleur che ha avuto nel «fare» un intenso serbatoio di esperienza e conoscenza. Fin dall'infanzia, trascorsa nell’industria di Larderello, tra cantieri ed officine, mi sono appassionato a tutto ciò che è «costruzione».
Abbastanza presto ho avuto i primi contatti con una serie di aziende interessanti come ad esempio la Metalmobili, per la quale realizzai nel 1970 il mio primo progetto: Lem, un monoblocco da soggiorno che comprendeva tavolo, sedute e contenitori. Questa azienda realizzava tutto il processo produttivo internamente avendo la falegnameria, l’impianto per il compensato curvato, la verniciatura compresa quella a poliestere, l’impianto di cromatura, l’officina per il metallo con piegatubi e impianto di verniciatura a polveri. Possedeva anche un reparto per lo stampaggio del poliuretano espanso. Tutto era a «portata di mano» e in breve ho potuto acquisire un’esperienza diretta di molti tipi di lavorazioni.
Da allora ho avuto varie esperienze, operando in settori diversi, realizzando oggetti d’uso, tavoli, sistemi di sedute, letti, mobili da bagno, luci, ecc., passando di tipologia in tipologia. Ho collaborato da metà degli anni ’70 fino agli anni ’90 con Toncelli, realizzando varie cucine tra cui Douglas, Tholos, ecc. Ma la prima che ha superato il concetto stretto di cucina per porsi come un vero sistema componibile è stata Kaleidos, dotata di grandi possibilità di composizioni personalizzate.

 

Come si è evoluta, dagli anni ’70, la professione di designer?
Oggi la questione tecnica è divenuta cruciale: idee e tecnologie vengono superate a grande velocità. Quando ho cominciato – parlo del design diffuso per il vasto pubblico realizzato negli anni ‘70 – progettare significava, essenzialmente, definire la forma di un oggetto. La questione tecnica si limitava ad opzioni consolidate, di rado si utilizzavano processi produttivi tecnologicamente avanzati e, praticamente, quando il prodotto dimostrava una sua piacevolezza lo si metteva in produzione. Oggi il processo è diventato assai più complesso, «mediato» ed eterogeneo. Per fare un esempio, se all’inizio della mia carriera tra progetto, modifiche successive e prototipo forse non si superavano i due mesi per arrivare alla produzione, oggi il coinvolgimento di tecnologie avanzate comporta anche due o tre anni per la definizione produttiva di tutti i dettagli… Occorre quindi possedere una soglia minima di cultura tecnologico-industriale abbastanza alta. E oggi, credo, per un giovane che inizia, sia abbastanza problematico questo lavoro se non ha alle spalle una scuola seria o la pratica presso uno studio ben organizzato.

 

Come contraltare all’inasprirsi della questione tecnica potremmo dire che per molti designer la vita professionale tende fortemente a specializzarsi?
Il fenomeno esiste e certamente ha i suoi vantaggi perché cambiare settore può equivalere a rivoluzionare l’approccio consolidato al progetto. Molti designer – per certi aspetti anch’io – trovano alcuni ambiti più congeniali di altri. Ma è, credo, più un’intima affinità che una scelta razionale. Delimitando l’ambito di intervento, difficilmente si circoscrive l’uso della tecnica. Ad esempio, progettando esclusivamente nel settore divani può essere necessario realizzare un pezzo stampato in fusione, o una scocca in plastica, oppure prevedere un meccanismo per alzare un poggiatesta o spostare dei braccioli, quindi altre tecnologie che entrano nel progetto. Non c’è settore di competenza del designer in cui non sia necessaria la conoscenza di qualche tecnologia che è indispensabile acquisire, perché non esistono testi specifici in grado di preparare ad affrontare tutti i campi d’intervento del designer.

 

L’utilizzo del computer contribuisce sicuramente ad accrescere la capacità previsiva del designer. A tuo avviso questa possibilità di vedere a 360° la forma del prodotto prima che questa sia materialmente realizzata influisce sull’iter progettuale e sulla creatività?
Sulla creatività credo non abbia alcuna influenza, almeno nella misura in cui, ad esempio, una persona che disegna bene non viene influenzata dalle proprie capacità manuali: la creatività in sé è astratta. È vero comunque che il mezzo di cui si dispone consente di verificare la propria creatività. Questo mi sembra sia in questione nella programmazione 3D.
Quando si realizza uno schizzo si delinea qualcosa che rappresenta una possibilità. Da lì potrebbe nascere qualcosa di interessante, ma per ora non si tratta di un prodotto concreto. Soprattutto si ha ancora a che fare con una rappresentazione affettiva dell’oggetto, il disegno sarà sempre influenzato dalla simpatia che si prova per l’oggetto. Il computer crea quel diaframma che è necessario per procedere nella definizione formale. E’ asettico e ti consente di «anticipare» il momento di decisione estetico-funzionale, nei confronti di un’entità già molto più assimilabile ad un oggetto reale di quanto non lo possa mai essere un disegno. L’altro vantaggio è costituito dai tempi brevi di questo passaggio. Inoltre l’idea progettuale, una volta trasformata in 3D, se non piace la puoi correggere. Nella mia attività non ho mai cancellato o trasformato tante progetti come adesso che utilizzo il computer.

 

Quindi ritieni che ci sia un buon livello di «sperimentazione» dell’oggetto nella fase di resa virtuale?
Sì. Anche perché con un programma 3D non si disegna propriamente l’oggetto, ma lo si costruisce. Non si tratta quindi di un disegno fatto al computer – che può benissimo essere realizzato da terzi – ma di un vero e proprio progetto di costruzione. E, nella misura in cui si ha un grado di competenza sufficiente a gestire il programma, la progettazione in 3D equivale ad una sperimentazione volumetrica in quanto, nel procedere, l’oggetto viene verificato, se ne sperimenta l’efficacia, la fattibilità, ecc.

 

Una costante che caratterizza il tuo lavoro è l’approccio orgogliosamente pratico e dinamico all’ambito domestico…
E’ vero, ma non si è trattato di una precisa scelta razionale. Ho notato guardandomi indietro che c’e questo fil rouge che lega i miei lavori. Per esempio nel tavolo Clip Clap per Segis che, all’epoca della sua ideazione, era un prodotto piuttosto originale, soprattutto per il livello di industrializzazione. Nell’ultima versione ne è stato perfezionato il funzionamento, si può persino regolare dall’alto l’altezza della gamba. Et Voilà, sempre per Segis, è un suo immediato derivato.
Per Boboli posso dire che vale veramente il proverbio «tutti i mali non vengono per nuocere». Si stava lavorando con Mazzoni Delle Stelle ad una mia vecchia idea di divano con spalliera elevabile, che era stato presentato e subito accettato da Busnelli. Purtroppo, qualche giorno più tardi, notai su una rivista un divano quasi identico a quello a cui stavamo lavorando. Avvertii l’azienda che avremmo dovuto ideare qualcosa di diverso. Nacque così il meccanismo di Boboli che è, forse, il primo esempio di movimento che trasforma completamente l’impostazione della seduta. Biplano è stata poi una sfida, sia da parte mia che della Busnelli, piuttosto scettica dopo il primo prototipo. Il tema era quello di passare gradualmente dalla posizione seduta a quella completamente distesa. Dovetti farmi mandare da Milano il prototipo già fatto, per poterlo modificare personalmente in officina con l’aiuto di un amico fabbro, sperimentando leve, molle, rotazioni ecc. Si riuscì così a restituire il prototipo alla Busnelli perfettamente funzionante.

 

Visitando il tuo studio ci si accorge di come manualità e frequentazioni pittoriche convivano nel tuo lavoro. Un tuo versante gestuale e poetico avvertibile anche in produzioni forse meno note come l’appendiabiti Albero del cuore o la credenza I 4 Modi…
Solo ultimamente mi sono accorto della commistione di romanticismo e tecnologia che si alterna e convive in certi miei lavori. Una sorta di interscambio continuo che è anche tipico della mia personalità incline sia alla poesia, al colore, alla natura, sia alla tecnologia, alla precisione più schematica…
Amo dipingere e da parecchio tempo mi diletto a realizzare composizioni cromatiche. La passione per il colore è sicuramente un polo della mia personalità e credo che negli oggetti che realizzo se ne conservi una traccia. In questi mesi sto preparando i materiali per realizzare sia un sito professionale che una pubblicazione in cui raccogliere un promemoria anche delle mie altre attività, ovvero pittura e fotografia, settori nei quali sono comunque rimasto un dilettante…
Quanto ad Albero del cuore è un progetto di alcuni anni fa per Steel Line appartenente alla mia produzione più «poetica». Mi piace talvolta creare oggetti che diffondano ottimismo. L’albero ha per me questa caratteristica e mi piace averlo nel mio studio. I 4 Modi invece è una credenza moderna ideata negli anni ‘80 per Genesi International ed ancora in produzione. Di forma geometrica, è un gioco sulla base del quadrato la cui caratteristica principale è la smussatura in diagonale verso il centro. Piacque molto a Raissa, in visita in Italia col marito Michail Gorbaciov, che la volle per la sua casa in Russia.

 

La ricerca sui sistemi di seduta e sui componenti modulari lega da tempo il tuo nome a Busnelli. Da tale esperienza cosa hai percepito circa l'evoluzione del concetto di living?
Un cardine, anzi, il motore primo dell’evoluzione del salotto è stata sicuramente la televisione. Pur esistendo da oltre 50 anni la sua centralità non è stata recepita appieno fino a circa 30 anni fa – periodo a cui risale la sua completa assimilazione all’interno del progetto complessivo della zona giorno. Il «salotto» – concetto che dubito collimi con quello dei giovani d’oggi – è stato per molti anni del dopoguerra uno spazio ad utilizzo intermittente; elemento rilevante più a livello rappresentativo/culturale – quasi uno status symbol – che a livello pratico. Si trattava di uno spazio assai più vissuto mentalmente che non realmente: ci doveva essere, ma era un ambiente nel quale si era più «esposti» che in intimità. E con tale tonalità predominante ha svolto le proprie funzioni: ospitalità di parenti e amici, sala di lettura ecc. Oggi, oltre che qualitativa, la metamorfosi fruitiva degli spazi del salotto è innanzitutto quantitativa. Da luogo di utilizzo sporadico è diventato luogo frequentato per varie ore ogni giorno, anche per guardare la televisione. L’assiduo utilizzo di alcuni componenti essenziali di questo ambito – le sedute – ha contribuito in parte all’evoluzione del gusto e del concetto stesso di questo ambiente. La rappresentatività ha cominciato a contaminarsi in modo marcato con il comfort. Per il designer è divenuto assai importante consentire all’utente una seduta comoda che poteva prolungarsi per ore. Nella progettazione tengo molto presente il peso determinante di questo fattore. E con la Busnelli ritengo si siano create nel tempo valide soluzioni, a partire da Boboli che consente di allungare le sedute, alzare poggiatesta, quindi passare agevolmente da una posizione di conversazione ad una di relax. Un altro successo per la Busnelli è stato Monopoli, divano dalla tecnologia avanzata e di impostazione molto originale.

 

Al Salone del Mobile di Milano 2005 hai presentato un progetto che rientra appieno nella tua ricerca di design dinamico…
Tra i miei recenti progetti tengo molto a Yes una sedia pieghevole – impilabile sia orizzontalmente che verticalmente – con struttura in alluminio pressofuso, seduta e schienale in abs che – insieme alla sedia Link – ho realizzato quest’anno per Bontempi Casa. Ogni sua parte viene realizzata mediante stampi limitando l’intervento umano al solo montaggio dei componenti. Lo studio di fattibilità ha rappresentato la parte più seria della ricerca in quanto lo scoglio principale da superare era il costo di realizzazione. Bontempi è un'azienda che realizza oggetti a prezzi competitivi e Yes, pur avendo caratteristiche equiparabili a prodotti analoghi di alta fascia, avrebbe dovuto essere venduta ad un prezzo ragionevole. Sicché Yes è stata presentata come prototipo e col brevetto già depositato a Milano, quando ancora la fattibilità di alcune parti non era stata risolta completamente.

 

Sempre al Salone di Milano hai proposto Bonita, collezione di sedute in equilibrio tra leggerezza del segno, design contemporaneo e rigore funzionale…
Quella di Bonita è una storia lunga. La prima idea, di qualche anno fa, consisteva in un telaio in tubo di alluminio e seduta e spalliera in trafilato di alluminio. Poi il telaio si è trasformato in una pressofusione, mentre è rimasta l’originale impostazione degli estrusi per il sedile e lo schienale, anche se con alcune variazioni formali. Decisivo è stato l’incontro con una azienda come Origlia che, sfruttando la propria esperienza, è riuscita a portare avanti un progetto così complesso in modo brillante. Bonita è un sistema di sedute che comprende sedia, poltroncina, divanetto, seduta su barra, sgabelli ecc. Il tutto in varie versioni di finitura. E’ un progetto importante al quale ho dedicato molto impegno.

 

Nel 2004 la tua Oblà era presente nell’atrio della mostra a Firenze 100 Years 100 Chairs. Vitra Design Collection. Un’occasione unica per conoscere la storia dell’oggetto forse più significativamente connesso al nostro vissuto domestico…
Oblà – semplice ed elegante sedia in plastica realizzata per Steel Line nel 2004 – è stata esposta, come l’ultima nata (del nuovo secolo) oltre le 100 sedie storiche presenti alla mostra allestita presso l’Ospedale degli Innocenti in Piazza SS. Annunziata.
Per quanto mi riguarda, i miei recenti progetti segnano il ritorno ad una tipologia con cui ho un grande feeling. Un oggetto piccolo, alla portata di molti; un articolo industrializzatissimo cui si applicano molte nuove tecnologie.
Ma ciò che determina una costante attenzione su questo prodotto è la grande intimità che la seduta può vantare col vissuto di chiunque di noi faccia parte della società occidentale. Si tratta di un elemento completamente immerso e coinvolto nella nostra vita quotidiana, col quale conviviamo: da quando si sale in macchina, sul luogo di lavoro, a casa…

 

Poco fa hai menzionato l’economicità del prodotto come valore…
Mi sembra che realizzare un oggetto di grande serie dia risposte più coerenti con la questione posta dalla contemporaneità: ovvero produrre in un contesto ed in una società che non è più artigianale, ma tardo-industriale. Personalmente preferirei di gran lunga ottenere un risultato di grande serie piuttosto che di nicchia, poiché ritengo che il design abbia sempre a che fare con la grande serie. Ma così il discorso si allargherebbe implicitamente alla definizione di quale sia il miglior design: questione che ha un suo risvolto etico e, credo, sia anche molto impropria. Anche se per me non esiste vero progresso se una tecnologia non è alla portata di tutti, come sosteneva Henry Ford.

 

Ne hai già accennato in precedenza, ma a chi ritieni di dovere qualcosa della tua successiva esperienza professionale?
La figura di Leonardo Savioli ha caratterizzato gran parte della mia vita. Una grande umanità, un grande artista, ma, soprattutto, un grande progettista. Non mi riferisco tanto a progetti come quello di via Piagentina – in cui vedo più ricerca che afflato teorico coerente. Penso piuttosto a quello che considero un capolavoro dell'architettura italiana della seconda metà del secolo scorso: il Mercato dei Fiori di Pescia. Un progetto nel quale vengono esaltate le capacità più vere di Leonardo Savioli. L'ho visto in costruzione e in parte – da studente eseguendo alcuni disegni e prospettive – ho collaborato prima e durante le fasi di realizzazione protrattesi per diversi anni. Quando finalmente è stato completato e vi si è svolta la mostra dei fiori, vedendolo ho avuto un’impressione fortissima: è stato come essere di fronte a un Colosseo contemporaneo, un monumento dei nostri anni. È effettivamente un progetto in cui è possibile comprendere la grande forza, la capacità comunicativa di Savioli, le vibrazioni che i materiali più tipici degli ultimi anni – il metallo, il cristallo, tralicci e pali d’acciaio – riescono a trasmettere. Degli anni ’70 ho comunque un ricordo intenso anche dei miei colleghi assistenti di Savioli, tutti di qualche anno più grandi di me: Breschi, Buti, Corradetti, Galli ed altri. Tra di noi esisteva un continuo interscambio dovuto alla conoscenza dei lavori degli studenti che seguivamo per l’esame di composizione. Ognuno metteva in questo lavoro la propria personalità ed erano tutte personalità di grande rilievo.